Equivoco
di Simona Cremonini
Racconto selezionato e pubblicato sulla rivista Cronaca Vera (presente sul numero del 24 gennaio 2007).
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È davanti a me.
Cammina, rapida, sospettosa, nella notte buia.
I suoi passi si spengono sull’asfalto, i tacchi rumoreggiano sordi.
Siamo usciti dalla stessa festa. Non so perché lei se ne sia andata. Per quanto mi riguarda, mi annoiavo. Non conoscevo quasi nessuno; il mio amico Enzo si è imboscato con una biondina e sono rimasto solo a fare tappezzeria con un coca e rum in mano. E non era nemmeno granché come cocktail.
Perciò ho alzato le tende e sto tornando a casa.
Lei è carina. È avvolta in un cappotto scuro ed è distante, ma ha due gambe molto sottili e una figura slanciata ed elegante.
Se le circostanze fossero diverse, cercherei di aumentare la velocità, così magari riuscirei a raggiungerla e a fare due chiacchiere.
Ma è notte. Cammino in città e posso solo immaginare come debba sentirsi una ragazza giovane a doversi spostare a piedi, da sola, nel buio. Ho sentito di quell’assassino che chiamano Capitan Uncino. Ha una passione per le giovani donne. Le sorprende di notte e le sgozza alla gola con un oggetto appuntito. Come un uncino appunto. È per questo che non posso cercare di avvicinarla. Magari penserebbe che io sia un malintenzionato o, ancora peggio, questo misterioso “Uncino”.
Chissà come mai non è venuta in macchina. Ormai pensavo che nessuna donna avesse il coraggio di girare da sola, di notte.
Se alla festa avessi chiacchierato con lei, magari lo saprei.
Ma non le ho parlato. L’unica cosa che abbiamo in comune è che entrambi siamo a piedi, camminiamo per questa via ed è notte; anche io ho un po’ paura, devo ammettere.
Magari questo assassino orrido e misterioso si accontenta anche di un giovanotto, se non trova ragazze avvenenti… Preferisco non pensarci.
Continuiamo a camminare.
Manteniamo una distanza costante; cerco di non avvicinarmi e se mi accorgo di aver accorciato di qualche metro il distacco, noto che lei accelera automaticamente.
Mi sento un po’ il suo protettore, a dire la verità. Se non pensassi di poter essere invadente, la accompagnerei anche a casa.
Sembra davvero aggraziata.
Scommetto che è una di quelle ragazze sottili, con i piedini piccoli e i capelli corti e sbarazzini. Ho sempre desiderato conoscere una ragazza così, ma questo non è certo il tipo di ragazza che si farebbe rimorchiare da uno con lenti spesse come un’edizione tascabile della Divina Commedia; sì, sto esagerando, ma comunque con questi fondi di bottiglia potrei stendere Medusa che si rifletterebbe e verrebbe uccisa dal suo stesso sguardo!
Basta complessi. Osservo una cosa un po’ strana. C’è qualcosa sul marciapiede.
Le è caduto qualcosa. È piccolo, chiaro. Un guanto. Un guanto bianco.
Dev’essersi sfilato dalla sua borsetta o da una delle sue tasche. Non credo che se ne sia accorta.
Ora accelero. Basta complessi. Le restituisco il guanto e, se lei accetta, la accompagno fino a casa.
Ehi, ma che fa? Anche lei sta accelerando!
Oh, cielo, ora pensa che voglio aggredirla?
Mi affretto sempre più. Lo so che così rischio di peggiorare la situazione, ma non ho nemmeno il suo numero di telefono per chiamarla domani: non so come fare per restituirle il guanto che, tra l’altro, potrebbe essere costoso.
Sono più veloce di lei. La distanza si accorcia. Inesorabile, visto che sono più alto e che lei sembra avere un fisico delicato e non sportivo.
Venti metri. Diciassette metri. Quindici metri. Il distacco diminuisce, il mio imbarazzo cresce in modo direttamente proporzionale, ma il fiato si sta esaurendo e non ho il tempo né l’energia per continuare a farmi domande.
Ormai sono a una decina di metri da lei. Lei si guarda alle spalle e mi vede. Si accorge di quanto mi sono avvicinato, e io sollevo la mano per mostrarle il guanto, per farle vedere che non voglio farle del male ma solo ridarle ciò che ha perso.
Finisce il marciapiede. Lei scende e prosegue diritto, controllando alle sue spalle quello che faccio io.
È questione di un attimo. Sono a cinque metri da lei e lei scompare. Una macchia nera appare dal nulla e la porta via con sé, la nasconde alla mia vista. Scrocca qualcosa e la macchia nera scompare nel nulla, così come è arrivata.
Solo ora mi rendo conto che era un grosso fuoristrada nero quello che è passato.
La cerco e non la trovo.
Poi la vedo.
È a terra, distesa su un fianco, immobile.
Mi avvicino.
Il buonsenso mi dice di allontanarmi e di fare finta di nulla, di tornare a casa e di lasciare che qualcun altro la soccorra.
Non si muove.
Le giro intorno, per vedere il suo viso. È nascosto dai lunghi capelli neri, qua e là imbevuti di un fluido rosso scuro. Sangue. Guardo le sue mani. La mano sinistra è nascosta dal corpo, la destra è distesa sull’asfalto. È nuda, inerte.
La prendo in mano.
È gelida.
Mi sfilo il guanto bianco dalla tasca. Con difficoltà vi faccio scorrere dentro le dita e il resto della sua mano.
“È stato un equivoco, non volevo spaventarti”, le sussurro.
Mi alzo in piedi. Il conducente dell’auto non si è degnato di fermarsi, anche se il forte contraccolpo tra la ragazza e l’automobile deve averlo sicuramente percepito.
Mi allontano nella notte. Sono giorni di paura. Un efferato assassino si aggira per queste strade, nel buio. Prima che si levi la nebbia e che la mano mi ricominci a fare male, è meglio che mi metta al sicuro, in casa.
Forse potrei fare qualcosa per questi orribili occhiali; forse potrei usare delle lenti a contatto o trovare una montatura alla moda che mi faccia risaltare diversamente il viso. Ma non credo di poter fare nulla per questo appuntito uncino che pulsa sotto la coprente protesi.