Incipit – “Il Pittore delle Fate” © Simona Cremonini
PRIMA PARTE
Capitolo 1
Nel quale Jonathan Sanders deve scrivere un articolo per l’Evening Star
Voleva entrare nella sede dell’Evening Star per uscirne il prima possibile.
Jonathan Sanders giunse alla redazione del giornale dove lavorava con questo proposito pratico che, tuttavia, nascondeva un sentimento molto poco signorile, di cui un po’ si vergognava: c’era qualcuno che preferiva evitare di incontrare, quella mattina ma non solo.
«Buongiorno, signor Cumberland, avete qualcosa per me?» domandò impaziente il giovane giornalista.
Si tolse la bombetta e, come d’abitudine, la fece scivolare sull’appendiabiti accanto alla porta, poi si sfilò velocemente il cappotto, che fece la stessa fine. Nonostante avesse fretta, non voleva apparire maleducato e mettere da parte le buone maniere che gli aveva insegnato sua madre Mary, come quella di levare cappello e soprabito quando faceva il suo ingresso in una casa o in un ufficio.
Il locale in cui era appena arrivato era alto e stretto, con le pareti ricoperte da una sbiadita carta da parati con motivi geometrici. Lo spazio era dominato dalla presenza di un imponente bancone in legno di piuma di mogano che invitava a decidere subito se avventurarsi fra i rumori della stamperia e seguire il piccolo corridoio che si scorgeva davanti alla reception sulla destra, oppure se procedere verso l’austera porta che si intravedeva sul fondo e che portava verso la zona degli uffici.
Quello, a differenza del resto d’Inghilterra e del mondo governato dalla Regina Vittoria, era il regno di Thomas Cumberland: il segretario coordinava il lavoro tra la redazione e la tipografia adiacente e ormai era così abituato a essere interrotto di continuo che andò avanti a timbrare delle buste, come se nulla fosse, e non diede alcun segno di aver visto il giornalista o di averlo sentito.
Jonathan si appoggiò con i gomiti al bancone e controllò se Cumberland, nella sua grafia ordinata, avesse lasciato lì sopra qualche annotazione per lui.
Si mise a tamburellare le dita sul ripiano e incalzò: «Qualche riunione fissata? Qualche messaggio? Qualche emergenza su cui scrivere un pezzo? Dovrei uscire per un articolo che devo preparare per le pagine culturali, ma prima di andare via vorrei essere sicuro che non ci siano delle urgenze o che non sia arrivato un biglietto per rimandare l’appuntamento».
Capitava così di frequente che i suoi piani venissero modificati da altri che Jonathan ormai era rassegnato al cambiamento: ma non per questo voleva esserne travolto e perdere del tempo, perché era stancante muoversi a piedi nella grande città.
Thomas Cumberland proseguì con ciò che stava facendo. Un minuto dopo, quando ebbe terminato, sistemò la pila della corrispondenza e finalmente rispose: «No, signor Sanders, non ho messaggi per voi. E né il direttore Bullough, né il signor Perry, né altri, mi hanno detto nulla da riferirvi».
«Grazie, signor Cumberland. Sarò di ritorno qui attorno a mezzogiorno, credo». Jonathan non era mai sicuro che il segretario di redazione lo ascoltasse quando gli rivolgeva la parola, ma aveva fatto il proprio dovere passando a controllare. Ora era libero.
Al volo riprese la bombetta e il cappotto che poco prima aveva appeso all’attaccapanni e, dopo esserseli infilati di nuovo, uscì dall’edificio, così da non imbattersi in Jacob Perry e non essere costretto a parlare con lui.
Era Perry, il suo problema. Da tempo Sanders provava fastidio quando doveva avere a che fare col suo caporedattore. Limitava allo stretto necessario i contatti fra loro, e non poteva farci nulla se quello non era un sentimento da galantuomo. Si sentiva così e basta.
Perry era un omuncolo alla ricerca della ribalta, senza però doversi mai impegnare troppo. Un gradasso che era riuscito ad arrivare alla sua posizione senza avere grossi meriti, che puntava al massimo rendimento col minimo sforzo.
Questa era l’opinione che si era fatto Jonathan sul suo diretto superiore. Ed era basata non solo sul suo stesso istinto e sulla sua esperienza personale con Perry, ma anche sugli stralci di conversazione e sugli sguardi seccati che, nei due anni precedenti, aveva colto di quando in quando dai colleghi giornalisti e tipografi. I pettegolezzi non gli erano mai interessati, ma vi aveva rivolto attenzione da quando aveva capito con chi aveva a che fare. Ciò che era successo nei mesi precedenti, con Sherlock Holmes, ne era la dimostrazione.
Era una gran fortuna che, per fare il suo lavoro, Jonathan non dovesse in ogni momento rendere conto della propria presenza o assenza né a Perry né a nessun altro. Bastava che preparasse con la massima puntualità gli articoli che gli venivano assegnati. Ora, inoltre, poteva andarsene da lì evitando che gli fosse affibbiato qualche altro incarico, se non quello che doveva portare avanti quel giorno e che, per la sua natura, gli pareva comunque impegnativo a sufficienza.
Jonathan sospirò e cercò di non pensare al caporedattore. Era meglio godersi la passeggiata sotto il sole, lungo le vie di Londra, prima di arrivare alla galleria d’arte a cui era diretto.
Era primavera piena, ormai: il tepore aveva asciugato tutte le nebbie dell’inverno e lasciato spazio a una temperatura piacevole che, ora che Jonathan stava camminando, lo avvolgeva dalla testa ai piedi. Il cappotto e il cappello che avrebbero dovuto ripararlo dal vento iniziavano a essere di troppo per quella stagione, ma li avrebbe dovuti portare ancora per un po’: l’estate e il momento di escluderli dal guardaroba quotidiano erano ancora lontani.
La giornata mite aveva richiamato nelle vie non solo operai e uomini d’affari, ma anche le signore a passeggio. Più di una volta il giornalista sollevò con delicatezza la bombetta e fece arrossire delle ragazze di buona società, guadagnandosi così il biasimo delle donne, talvolta le madri, talvolta le zie, talvolta semplici domestiche, che erano con loro affinché uscissero con una compagnia appropriata.
Dopo un quarto d’ora di camminata, Jonathan si fermò sul marciapiede e richiamò l’attenzione di uno dei tanti ragazzini che facevano uno dei lavori che lui considerava, allo stesso tempo, più utili e disgustosi in una città come Londra.
Da quando viveva nella capitale, aveva pensato spesso che quello avrebbe potuto essere anche il suo destino: se, quando era arrivato in città, tre anni prima, non fosse stato già adulto, forse sarebbe finito a fare lo stesso, ingrato, mestiere. Per sua fortuna, era riuscito a evitarlo. Non c’erano molte occasioni per un giovane di diciannove anni del Kent che giungesse a Londra avendo in tasca solo una lettera di raccomandazioni del maestro del suo piccolo villaggio e Jonathan, per quasi un anno, aveva fatto un po’ di tutto per tirare avanti, finché non aveva realizzato il sogno di entrare nella redazione del giornale come correttore di bozze. Ora aveva raggiunto una posizione più stabile, molto diversa dalla condizione precaria del bambino di nove o dieci anni che aveva davanti e che, per sopravvivere, si ritrovava a svolgere proprio quell’attività tanto nauseabonda.
Lo strato di letame e liquami depositato sulle strade in alcuni punti della città raggiungeva l’altezza della caviglia e il miasma che emanava in certi momenti dell’anno, soprattutto nei mesi più caldi, metteva a dura prova anche gli uomini più forti. Il principale disagio, a parte l’odore a cui però come tutti Jonathan aveva ormai fatto l’abitudine, era che quando si voleva attraversare la strada si finiva irrimediabilmente per sporcare il fondo dei pantaloni.
Per questo molti bambini racimolavano qualche penny facendo proprio ciò che il ragazzino fece per Jonathan: attese il momento giusto, quando non c’erano carrozze che sopraggiungessero, e con una ramazza ripulì un passaggio perché il giornalista potesse arrivare dall’altra parte con i vestiti indenni. Poi, ricevuta la mancia, si chinò e gli pulì le scarpe con un piccolo straccio.
Jonathan lo ringraziò, lo salutò e riprese a camminare verso la sua destinazione.
Giunse alla British Academy of Artists quando mancavano pochi minuti alle dieci. Il giorno precedente il direttore Roger Mallow, con un messaggio che gli aveva inviato in redazione, gli aveva comunicato che potevano incontrarsi per quell’ora.
Il giovane giornalista salì gli scalini che portavano all’ingresso e suonò il campanello. Un forte trillo gli rimbombò nelle orecchie.
Attese per non più di un minuto sui gradini, poi un uomo venne ad aprire. «Il signor Sanders? Il direttore Mallow la sta aspettando».
Jonathan fece un cenno per confermare la propria identità e varcò la soglia. Fu accolto da un piccolo vestibolo con le pareti bianche e si guardò attorno.
Alla sua sinistra si apriva una vasta sala nella quale vi erano degli studenti dell’Accademia che stavano dipingendo. Il professore vide che era entrato un estraneo e andò a chiudere la porta dell’aula proprio mentre il giornalista gli passava accanto e veniva accompagnato nell’ufficio del direttore.
Roger Mallow era un signore distinto, con una giacca a doppio petto e cravatta all’ultima moda e i capelli brizzolati tagliati di fresco. Gli venne incontro tendendogli la mano. «Signor Sanders, che onore conoscervi!»
«Grazie direttore Mallow, ma il piacere è mio!»
«Non siate modesto! Siete colui che ha intervistato Sherlock Holmes! Avverto un groppo alla gola al solo pensiero di avervi qui per parlarvi della nostra nuova mostra».
In effetti la voce dell’uomo era un po’ strozzata mentre si rivolgeva a lui e Jonathan si sentì imbarazzato ma anche compiaciuto. Quello che aveva combinato Perry, forse, non era stato un disastro totale se, dopo due mesi, il nome di Jonathan Sanders era ancora associato a quello del più famoso investigatore londinese e provocava ancora tanto subbuglio in una persona che doveva essere abituata alla vita di mondo.
«Ne sono lusingato, a dire la verità» replicò. «Immagino che sappiate che ho seguito la stagione teatrale dello scorso inverno al Crystal Palace, con tutte le repliche del Sogno di una notte di mezza estate. Sono molto curioso di sapere di più sul vostro evento».
Il direttore Mallow possedeva una sola fotografia dell’artista di cui stava per parlargli e gliene diede una copia che aveva fatto preparare per lui.
Jonathan osservò per qualche istante l’uomo ritratto: era una figura minuta, con un viso anonimo e capelli corti punteggiati qua e là di riflessi bianchi.
Il giornalista tirò fuori il suo taccuino e Roger Mallow iniziò a raccontargli del pittore e delle opere che la galleria avrebbe ospitato nelle settimane seguenti.
…
Capitolo 2
Nel quale Jonathan vede le fate per la prima volta
Edmund Wright era cresciuto a Londra.
Suo padre era un abile tessitore di sete e damaschi e avrebbe desiderato che il ragazzo seguisse le sue orme.
Tuttavia, fin da piccolo, Edmund aveva evidenziato uno spiccato talento per il disegno che aveva spinto il genitore a condividere la gestione della sua attività con il secondo figlio e a lasciare che il primogenito mettesse a frutto le proprie capacità artistiche.
Appena arrivato tra i banchi dell’Accademia, Wright si era fatto notare dai professori e ben presto aveva iniziato a esporre. Aveva poi avuto l’opportunità di dedicarsi a una serie di quadri che rappresentavano giovani aristocratiche, ovvero le opere che l’avevano fatto conoscere sempre più al pubblico: finché la principessa Vittoria, in occasione del proprio diciottesimo compleanno, nello scegliere l’artista a cui affidare il suo ritratto per quella ricorrenza era rimasta colpita dalla mano di Edmund Wright e l’aveva voluto per sé.
Da quel momento la carriera del pittore era divenuta sempre più brillante e le sue opere non avevano mai smesso di essere presenti nelle più rinomate gallerie. Inoltre, essendo entrato nei favori reali, Edmund aveva continuato a ricevere numerose commissioni di dipinti da parte di ragazze pronte per il debutto in società, la famigerata Stagione Londinese per la quale più di una famiglia si era indebitata fino alla rovina e su cui ogni giornalista, Jonathan compreso, sapeva di non poter scrivere la cruda verità.
A un certo punto, però, quando il suo amico Richard Dadd era finito a Bethlem, Wright aveva fatto una scelta quasi estrema: per ragioni sconosciute a tutti, si era ritirato in una residenza in campagna situata nella contea di Thorn, a nord del Kent, a un’ora di treno dalla grande città. E, nonostante fosse richiesto a Londra e in tutta l’Inghilterra, nell’ultimo decennio non aveva mai fatto vita mondana, lasciando che fossero i suoi quadri a parlare per lui.
In quelle ultime settimane, sulla scia della grande fortuna che stavano raccogliendo le rappresentazioni shakesperiane in quegli anni, Mallow aveva deciso di utilizzare i dipinti custoditi presso l’Accademia e di dedicare a Wright una nuova esposizione. Un agente statunitense si stava già interessando presso la British Academy of Artists per portare la sua mostra a New York.
«Richard Dadd, il pittore che uccise il padre? È tuttora in manicomio?» volle sapere Jonathan.
Roger Mallow annuì.
La vicenda dell’artista dichiarato pazzo, e rinchiuso nell’ospedale psichiatrico criminale di Bethlem, a suo tempo era stata sulla bocca di tutta l’Inghilterra ed era impossibile non conoscerla, anche se allora Jonathan era solo un ragazzino.
La storia era tanto semplice quanto conturbante. Dieci anni prima Dadd aveva assassinato il suo stesso padre dopo essere tornato da un viaggio in Egitto, dove la Sfinge gli aveva sussurrato che il genitore era un emissario del diavolo. Questo retroscena della storia, rivelato da una delle domestiche di casa Dadd, era sempre apparso poco credibile, ma il pittore si era chiuso in un silenzio che aveva spinto molti a trarre le proprie personali conclusioni, senza preoccuparsi di appurare se ci fosse una verità diversa.
«Non so se mi lasceranno accennare a Dadd, nel mio articolo. L’opinione pubblica è molto sensibile a certe vicende e le sue sono ancora troppo recenti. In ogni caso, riguardo ai quadri, cosa può dirmi?» chiese Jonathan. Sapeva che avrebbe dovuto concedere solo un minimo spazio a tutte quelle circostanze di contorno o avrebbe subito dei tagli.
Mallow non si scompose e iniziò a spiegare.
La collezione era particolare, qualcosa di mai visto, e avrebbe potuto creare scompiglio per via di quel soggetto così noto, eppure ancora così misterioso ai più, che l’artista aveva scelto come filone delle proprie opere. Pur essendo presenti da un tempo indefinito nel folklore e nella letteratura, certi temi suscitavano ancora tanta meraviglia e riverenza.
Dopo vari minuti di pomposa presentazione, Jonathan si rese conto che il direttore della British Academy of Artists ci stava girando attorno con mille parole.
«In pratica si tratta di fate e di creature del piccolo popolo, no?» lo interruppe infine.
Mallow annuì e, al contrario di quanto pensava Jonathan, rimase poi in silenzio. Sembrava che non volesse aggiungere altro, come se avesse già assolto il proprio compito, senza sbilanciarsi.
Anche se non aveva voglia di tornare al giornale e incontrare il caporedattore, Jonathan cominciava a spazientirsi e domandò: «Sarebbe possibile vedere i quadri, tanto per farmi un’idea?»
Il direttore accolse volentieri la richiesta e, senza dire nulla dei dipinti, lo accompagnò per una serie di corridoi verso la parte dell’Accademia che era destinata a spazio mostra e che veniva aperta al pubblico da un altro ingresso. Mallow inoltre non volle entrare con lui, lasciandogli la possibilità di girare liberamente nell’esposizione.
Jonathan fece spallucce ed evitò di approfondire i motivi della riluttanza dell’uomo. Si immerse fra i pannelli e si fermò davanti al primo quadro.
Era la rappresentazione di un gruppo di creature, dalle sembianze decisamente fantastiche, che stavano facendo un picnic.
Sulla coperta stesa sul prato verde erano seduti alcuni goblin che indossavano abiti rossi, all’apparenza realizzati con un tessuto di foglie cucite assieme. Attorno a loro, vi erano dei folletti magri e con le guance arrossate, forse dalla luce del sole, nonché alcuni putti alati dalle sembianze più umane.
Ciò che attirò l’attenzione del giornalista furono però le ragazze: tre giovani donne avvenenti, con vestiti leggeri color latte che facevano risaltare la forma dei loro fianchi, parevano danzare a piedi nudi sul prato sfiorandosi le mani le une con le altre. Una delle tre aveva i capelli biondi come il grano, mentre le altre due, che avrebbero potuto essere gemelle, avevano lunghe chiome rosse. Tutte e tre possedevano ali bianche che spuntavano dalla schiena e che parevano in perfetta armonia con il resto del loro corpo. Jonathan non riuscì a memorizzare i loro visi, anche se i lineamenti erano ben definiti.
A vegliare sull’intera scena vi era un vecchio con il panciotto e i capelli grigi striati di bianco, accomodato su una grossa foglia che fungeva da poltrona. Anche costui non aveva l’aspetto di un essere fatato, ma il viso affilato e il cipiglio indagatore suggerivano che, forse, non tutto era come appariva.
La situazione era onirica, ma non mancava di possedere molti dettagli realistici: Jonathan avrebbe potuto definirla addirittura reale. Il pennello aveva disegnato il tutto con estrema precisione e su ogni personaggio ritratto sembrava risplendere una luce del tutto naturale, come se il sole stesse davvero penetrando fra le fronde e all’improvviso illuminasse un angolo del bosco o di un parco, rivelando quelle presenze fatate.
Proprio per la tecnica impeccabile con cui erano ritratte, Jonathan rimase turbato, come se quelle creature potessero a un certo punto muoversi sotto il suo sguardo.
Prima che succedesse, passò al quadro successivo, annotando qualche frettoloso appunto sul suo taccuino.
Il secondo soggetto era più essenziale. Su uno sfondo sfumato di verde oliva, senza contorni delineati, spiccava un’unica figura: era una bella ragazza con i capelli sciolti, molto lunghi e castani, rossicci sulla parte finale, seduta a suonare una grande arpa celtica in legno che la dominava in altezza.
Erano due i dettagli che rendevano singolare il quadro.
Il primo erano senza dubbio le ali della giovane, delicate e trasparenti ma di una sfumatura rossiccia, simili a quelle di una grande farfalla. Partivano dalla sua schiena e si ergevano verso l’alto fino a raggiungere le dimensioni dello strumento.
Il secondo particolare erano i capelli. Erano sollevati dalla testa e addossati alla parte superiore dell’arpa, da dove ricadevano dall’alto fondendosi letteralmente con le corde dello strumento. Era quasi come se l’arpista stesse addirittura suonando la sua stessa chioma. Allo stesso tempo i suoi piedi, nudi anch’essi, si confondevano con il basamento. L’arpa appariva come una parte del corpo della ragazza, un prolungamento che solo la malizia dell’occhio umano poteva leggere come qualcosa di innaturale.
Mentre Jonathan faceva un passo in avanti e passava al quadro seguente, solo per un istante gli parve di udire un dolce susseguirsi di note d’arpa e un canto flebile:
“… Greensleeves was my delight,
Greensleeves my heart of gold…”.
“… La Signora dalle Maniche Verdi era la mia delizia,
La Signora dalle Maniche Verdi il mio cuore d’oro…”.
La musica svanì subito e Jonathan guardò il dipinto che aveva davanti ora. Esaminandolo, gli sembrò di tornare indietro all’inverno appena terminato, alle lunghe serate trascorse in teatro, al Crystal Palace, ad assistere al Sogno di una notte di mezza estate che aveva animato la scorsa stagione teatrale londinese.
L’ambientazione del dipinto, però, era all’aperto. Si trattava di un vasto anfiteatro in marmo chiaro, cinto da una serie di strutture verticali e da alcuni alti cipressi. La splendida arena era raffigurata in prospettiva frontale, con i gradoni discendenti verso il palcoscenico. Con abile mano, con il pennello Wright era riuscito a illuminare il tutto del riflesso lunare, donandogli una luce notturna e romantica, quasi sovrannaturale.
Al centro vi era un gruppo di fate, con ali candide e vestiti bianchi, che sembravano chiacchierare o addirittura recitare, mentre una delle loro sorelle sorvolava leggiadra il luogo, lasciando che un venticello le accarezzasse i lunghi capelli biondi. Il tutto pareva un sogno shakespeariano.
Jonathan fissava rapito il quadro. Scrutò di nuovo i loro visi ma non riuscì a memorizzarli. Gli ci volle un po’ per rassegnarsi a quello strano scherzo che la sua mente, in genere molto ricettiva, gli stava giocando. Fra loro non riconobbe alcuna attrice di teatro o ballerina a lui nota.
Prima di rimanere ipnotizzato dalla tela, si sforzò di staccarsi per osservarne un’altra.
Il nuovo quadro lo trasportò in una dimensione del tutto diversa, inaspettata. Fino a quel momento aveva ammirato ciò che aveva davanti e aveva lasciato in sospeso ogni giudizio, perché sapeva che tutti i soggetti ritratti appartenevano al folklore e alla sensibilità degli artisti e ognuno poteva dar loro l’interpretazione che voleva. Soprattutto, per quel che lo riguardava, doveva solo farsi un’idea dei contenuti per spiegarli ai lettori dell’Evening Star, non doveva per forza obbligarsi ad accettarli per veri o falsi né decidere quale fosse il loro valore.
Quello a cui si trovava di fronte ora, però, lo mise a disagio e lo spinse a considerare cosa stesse davvero guardando in quella mostra.
La scena del dipinto, come quelle di tutti gli altri, appariva del tutto reale. In primo piano vi era un pittore, probabilmente Wright stesso, ipotizzò Jonathan. Era ritratto di spalle e tendeva in avanti una grossa mano bianca che stringeva un pennello sporco di rosso: aveva di fronte a sé una tela su cui stava tratteggiando una figura femminile circondata da un contesto naturale, rispecchiato alla perfezione dallo sfondo generale del dipinto.
L’ispirazione dell’artista veniva da una fanciulla alata, in piedi sul prato e intenta a giocare con alcuni pettirossi che le volavano attorno alle mani. Era una ragazza splendida, dalla carnagione color ambra, con lunghi capelli neri sciolti al vento e grandi occhi scuri, luminosi come quelli di certe schiave dalla pelle nera che Jonathan aveva spiato quando, nei primi tempi al giornale, si era ritrovato a girare in certe vie della città, in luoghi che avrebbe preferito non frequentare mai più. Era avvolta da un abito bianco che le scivolava sul corpo più leggero di una camiciola da notte, di quelle che lui occasionalmente aveva visto addosso solo alla madre nell’intimità della loro casa.
Quando Jonathan cercò di mettere a fuoco il suo viso, i contorni della giovane ritratta si fecero più nitidi e quegli occhi si fissarono nei suoi. Come se una farfalla gli si fosse posata sulla schiena, l’uomo rabbrividì.
Le pupille nere della ragazza lo scrutarono e sembrarono scavare in profondità, fino a leggere i suoi stessi pensieri e indagare dentro la sua anima.
Gli vennero in mente molte cose, soprattutto quelle che gli faceva male ricordare: il Kent, i paesaggi della sua infanzia, sua madre Mary che alla sua partenza gli aveva detto «Vai, e non tornare più indietro»; poi i primi lavori di fatica a Londra, che lo lasciavano esausto giorno dopo giorno, finché non si era presentata l’opportunità di entrare al giornale; e, ancora, Perry che lo mandava in giro come tirapiedi e cercava di ricavare notizie da sottrargli, utili per la propria carriera.
Il giornalista non voleva smettere di guardare la donna, ma a un certo punto non ce la fece più a ripensare a tanti episodi, soprattutto a quelli che più lo infastidivano.
Distolse lo sguardo e cercò di catturare i dettagli che circondavano l’ammaliatrice. Aveva bisogno di capire da dove il quadro traesse la propria ambientazione e se quel personaggio potesse avere un fondo di verità: non sapeva nemmeno lui perché.
Jonathan si sforzò di osservare con attenzione anche l’artista ritratto.
Sfilò dal taccuino la fotografia che gli aveva dato Roger Mallow. Il pittore era raffigurato di spalle e il giornalista non riuscì a cogliere una somiglianza tra i due. Quello sull’immagine stampata sembrava un altro uomo, perché quello dipinto era più alto, con i capelli più lunghi e più scuri.
Mentre si interrogava su questo, Jonathan sentì un fruscio dietro di sé e si voltò. Gli era parso che qualcuno gli passasse accanto, ma la sala era vuota se non per la presenza sua e dei quadri.
Fece qualche passo per accertarsene e, proprio in quell’istante, una voce richiamò la sua attenzione dalla porta.
«Signor Sanders? Siete ancora qui?»
Il direttore della galleria era tornato a vedere se avesse finito la visita, perché erano trascorse più di due ore da quando era lì. Jonathan non si era accorto di averci messo tutto quel tempo.
Raggiunse Mallow sulla soglia e gli chiese se uno dei quadri fosse un parziale autoritratto, ma l’altro non fu in grado di rispondere. Era il momento di andarsene, anche perché quel pomeriggio Jonathan aveva un altro articolo da scrivere.
Non avrebbe parlato della fata e del suo sguardo più vivo di quanto sarebbe dovuto nascere da delle semplici pennellate, perché avrebbe provocato troppa inquietudine nei lettori.
Aveva comunque materiale a sufficienza per invitare i londinesi ad andare all’esposizione e una bella idea per fare un attacco d’effetto: le fate esistevano e avevano scelto Edmund Wright e i suoi quadri per annunciarlo al mondo.
In quanto a lui, non aveva motivi per sentirsi turbato da quei dipinti, così come non ne aveva per tornare a vedere anche il resto di quelle figure.
Il che, concluse tra sé e sé, era anche un sollievo.
…
Capitolo 3
Nel quale Jonathan lavora al pezzo sulle fate e sul loro pittore e riceve un biglietto
Sulla via del ritorno, Jonathan si fermò in un pub per un pranzo frugale, poi rientrò in redazione per lavorare al suo pezzo.
Ancora una volta, si informò da Cumberland se qualcuno avesse chiesto di lui, nelle ore in cui era stato assente. Ricevuta una risposta negativa, se ne andò alla sua postazione, sistemata in un piccolo locale un po’ isolato. Dopo aver trascorso la mattinata in giro, era un sollievo mettersi comodo e fare ordine nelle idee.
Nel suo ufficio, pur di dimensioni modeste, Jonathan aveva a completa disposizione un tavolo da lavoro in piuma di mogano e alle spalle un vecchio scaffale dove riporre libri e documenti. A sinistra aveva un attaccapanni di ottone recuperato chissà dove, mentre un altro scrittoio, che spesso gli serviva per sistemare gli appunti, era collocato sotto la finestra, perpendicolare alla scrivania. Lo spazio lì dentro era veramente poco e per andare a sedersi Jonathan doveva stare attento a non urtare gli spigoli dei mobili, ma lui si trovava a suo agio.
E poi tutti gli uffici avevano una superficie ridotta, non solo il suo. Per fortuna il soffitto era alto e le finestre erano ampie, così da attutire l’effetto angusto e le sensazioni soffocanti che evocavano quelle stanzette. Allo stesso tempo le porte tra l’uno e l’altro erano sempre aperte e c’era sempre qualche giornalista che andava e veniva, per chiedere informazioni di qualunque tipo ai colleghi o suggerimenti per l’articolo a cui stava lavorando.
«Sanders, siete qui, vedo». Il caporedattore Perry entrò nella stanza e, ancora una volta, Jonathan si sentì addosso i suoi occhi scuri e tondi come quelli di un topo.
Pur infastidito dall’incontro, si obbligò a rispondergli: «Sì, sono tornato. Avete bisogno di me, signor Perry? Devo scrivere il pezzo sulla galleria di questa mattina e la recensione al romanzo Villette di Charlotte Brontë, che è stato inviato già da due settimane dall’editore». Avrebbe evitato volentieri di uscire di nuovo, magari per qualche increscioso episodio di cronaca, come quelli che seguiva fino a poco tempo prima e di cui, talvolta, doveva ancora occuparsi. La fama che Perry, senza volere, gli aveva procurato come colui che aveva intervistato Sherlock Holmes, gli aveva dato la possibilità di poter trattare quasi esclusivamente di letteratura, di teatro e di tematiche culturali a lui care, e ambiva a non dover più avere a che fare con altri settori.
Jacob Perry non discusse e si limitò a prendere atto dei due articoli che Jonathan doveva scrivere. «Volevo informarvi che per il pezzo sulla mostra alla British Academy of Artists avrete una spalla di due colonne, domani. C’è qualcosa di interessante da andare a vedere alla galleria, a proposito?»
Jonathan non poteva esimersi dal rispondere, perché era a lui che doveva consegnare l’articolo. «Sì, un pittore, noto fino alla corte d’Inghilterra per aver ritratto la regina Vittoria, che ha scelto di dipingere fate. Ho avuto delle buone idee per parlare di questo argomento che, come potete immaginare, non è nulla di eclatante» preferì sminuire. «Voi siete un uomo di città, ma sapete che io provengo dalle zone rurali: e penso di poter affermare che i lettori che hanno esperienza della vita fuori Londra saranno incuriositi dalla materia». Perry gli rinfacciava sempre da dove venisse e a volte a Jonathan piaceva sfruttare la cosa per essere lasciato in pace.
Il motivo per cui quell’articolo avrebbe avuto spazio sull’Evening Star era che Roger Mallow era amico del proprietario del giornale, che non si faceva mai vedere lì se non quando ne incontrava il direttore, George Bullough, che curava in modo autonomo di tutte le questioni editoriali.
Forse anche per questo Perry chiuse lì il suo interrogatorio e presto andò in cerca di qualcun altro da prendere di mira.
Jonathan non lo sopportava.
Due mesi prima, il caporedattore lo aveva mandato da Sherlock Holmes, obbligandolo a fingere di essere un ricco commerciante la cui domestica era scomparsa. Era l’unica scusa con cui il giornalista aveva potuto incontrare Holmes che, pur essendo uno degli uomini più ammirati d’Inghilterra, era molto restio nei rapporti con la stampa, tanto da far parlare sempre i vertici di Scotland Yard e i poliziotti con i giornalisti dei vari casi di cui si occupavano. Quello di Jacob Perry era stato un piano ignobile, che l’investigatore aveva prontamente smascherato e che era comunque valso a Jonathan materiale sufficiente per costruire un’intervista al detective.
Colui che aveva intervistato Sherlock Holmes aveva così iniziato ad avere un occhio di riguardo all’Evening Star, mentre il suo caporedattore era rimasto a bocca asciutta e non aveva potuto guadagnare nulla da quella faccenda, anzi gli si era ritorta contro: il suo obiettivo era sempre stato di lasciare che Jonathan facesse l’agnello sacrificale, perché Perry potesse ottenere da Holmes delle informazioni interessanti da pubblicare a sua firma. Non era andata affatto così ma alla fine si era comunque preso il merito che Sanders fosse uno dei suoi “ragazzi” e avesse imparato da lui.
Il giovane giornalista scrollò le spalle e si mise al lavoro. Dagli appunti sul suo taccuino e da ciò che aveva visto alla mostra ricavò il suo pezzo sull’esposizione delle fate alla British Academy of Artists, poi lo consegnò e si mise a scrivere la recensione su cui aveva raccolto una serie di spunti mentre leggeva il libro.
Alla lettura dei romanzi, che gli editori inviavano molto spesso al giornale perché fossero pubblicizzati, Jonathan si dedicava la sera, nella sua camera, in un appartamento preso in affitto a Mayfair. A causa dei prezzi proibitivi della capitale, lo condivideva con Pete Follow, un ingegnere di poco più giovane di lui che lavorava ai progetti della futura elettrificazione della metropolitana di Londra. La madre di Jonathan era morta sola, nel Kent, dopo che lui tre anni prima era andato a stare in città, mentre suo fratello maggiore Percy già da molto tempo era partito per l’India con l’esercito inglese. Il giornalista non aveva più un’altra casa.
L’articolo di Jonathan sulla mostra di Edmund Wright non solo non passò inosservato, ma scatenò una certa inquietudine fra i lettori.
Quelli che avevano avuto esperienza diretta di fate e folletti, o anche solo un nonno o una nonna che raccontasse qualche storia di creature magiche, lo accettarono così com’era, come un vero e proprio manifesto di una verità che da tempo sapevano che avrebbe finito per divenire di pubblico dominio.
Molte altre persone invece, incuriosite da una materia che conoscevano poco ma dotata di grande fascino, si riversarono alla galleria per verificare con i propri occhi ciò che era stato rappresentato sulla tela e riportato dall’Evening Star.
Per questo nei giorni seguenti una folla numerosa e sempre crescente, che non si era mai vista alla British Academy of Artists, ne riempì le sale: la rivelazione delle fate non era passata sotto silenzio e seguirono settimane di frenesia.
L’interesse per la mostra di Edmund Wright non andò scemando in città, al contrario: con la notizia dell’esposizione dei dipinti sulle fate che passava di giornale in giornale e guadagnava sempre più spazio sulla stampa, l’evento continuò a richiamare un pubblico sempre maggiore. In più occasioni gli agenti di Scotland Yard dovettero andare in ricognizione attorno alla galleria perché si stava creando troppo disordine pubblico. A causa del pezzo di Jonathan Sanders, un vortice di novità stava inghiottendo Londra, ma non solo.
Qualche giorno più tardi una mattina Jonathan giunse in redazione. Come d’abitudine, sfilatosi la bombetta chiese al signor Cumberland se ci fossero messaggi per lui, e la risposta per una volta lo stupì.
«È arrivato un biglietto per voi, viene dalla contea di Thorn» dichiarò il segretario. Gli allungò la busta che era stata consegnata da un fattorino e poi tornò al suo lavoro senza guardarlo più in faccia.
Jonathan infilò il cappello sotto il braccio sinistro, allungò quello destro per prendere la busta e curioso le diede un’occhiata veloce su entrambi i lati, poi si rese conto che non poteva aprirla in quel momento. Aveva camminato fin lì dal suo appartamento reggendo con la mano sinistra una borsa di pelle, che era piena di fogli e iniziava a farsi pesante. Tenne la missiva con le dita della mano destra e si spostò fino alla sua scrivania. Mentre attraversava la redazione, salutò gli altri giornalisti presenti e un paio di tipografi che stavano parlando con un collega.
Perry non era ancora nell’edificio o, perlomeno, Jonathan non lo scorse. Non ne sentì la mancanza.
Giunto alla sua postazione, infilò la borsa sotto la scrivania, dove sarebbe stata nascosta alla vista, si liberò di bombetta e cappotto e si riposò per qualche istante. Finalmente poteva dedicarsi al biglietto.
La busta era bianca, in carta pregiata.
Su un lato vi erano l’indirizzo dell’Evening Star e l’indicazione che il messaggio era stato inviato alla sua attenzione personale.
Sull’altro vi era una semplice intestazione, che lo sorprese: il messaggio veniva da Waterhouse, residenza di Edmund Wright, situata a Thorn. Non era specificato dove si trovasse la casa. Da quanto il giovane giornalista ricordava dalla conversazione col direttore della galleria, la cittadina distava circa un’ora di treno da Londra.
Jonathan prese il tagliacarte che teneva sulla scrivania. Con delicatezza tagliò la busta e ne sfilò un biglietto di una carta altrettanto pregevole, ma un po’ più spessa. L’inchiostro nero era stato assorbito perfettamente, senza sbavature.
Lesse il messaggio con curiosità.
Egregio signor Sanders,
Ho letto con estremo interesse il vostro articolo sull’Evening Star. Vorrei ringraziarvi per le belle parole che avete rivolto al mio lavoro e per aver colto il significato dei miei quadri.
In quest’epoca di scienza e di scoperte sorprendenti, è importante tenere la mente e il cuore aperti verso tutte le altre possibilità.
Con stima,
Edmund Wright
Jonathan rigirò il biglietto fra le mani. Per cortesia avrebbe dovuto rispondergli a sua volta.
Voltandolo, notò che sulla facciata opposta del foglio era stato abbozzato uno schizzo e lo avvicinò agli occhi per metterlo a fuoco.
Rappresentava una ragazza della quale, con pochi segni a matita, era stata raffigurata solo la parte superiore del corpo, con lunghi capelli lisci che si spargevano intorno come mossi da una brezza lieve. La forma della schiena e del braccio sinistro era appena accennata, ma oltre la spalla alcuni tratti leggeri disegnavano una maestosa ala che si perdeva nel colore biancastro del biglietto. Gli occhi erano grandi ed espressivi e lo sguardo tanto magnetico che a Jonathan parve di osservarla come se fosse lì davanti. La bocca carnosa era incurvata in un delicato sorriso.
Il giornalista non aveva mai visto una donna così bella, anche fra le attrici di teatro che aveva incontrato scrivendo per il giornale. Deglutì. Si sentiva la gola asciutta.
Per un istante gli parve che le labbra della ragazza si protendessero per soffiare verso di lui, come per mandargli un bacio. Il suo cuore accelerò, ma in quel momento la bombetta cadde dall’attaccapanni e lo distrasse, facendogli distogliere lo sguardo. Era come se un improvviso refolo di vento avesse attraversato la stanza. O forse era l’aria che veniva dal biglietto, pensò, sentendosi subito sciocco.
Jonathan non si alzò per raccogliere il cappello e tornò a scrutare il disegno. Ovviamente, la ragazza era immobile, con la sua espressione iniziale.
«Sanders, vi cerca il direttore. Vuole vedervi nel suo ufficio».
A quel richiamo improvviso Jonathan doveva aver fatto una faccia strana, dato che Perry con il suo solito fare indagatore gli chiese se fosse successo qualcosa. Il giornalista tornò in sé quel tanto che bastava per replicare che sarebbe andato subito da Bullough e non diede altre spiegazioni.
Per evitare che il caporedattore potesse vedere il biglietto o il bozzetto che vi era sopra, Jonathan lo tenne in mano.
Mentre si avviava a incontrare il responsabile del giornale, lasciò nascosta sotto la scrivania la sua borsa, ma portò con sé il messaggio del Pittore delle Fate.
…