Tra pochi giorni il veronese Francesco Calzolari compirà 500 anni: egli infatti nacque a Verona il 10 luglio 1522 e morì a Rivoli Veronese il 5 marzo 1609.
Speziale, esploratore, erborista, farmacista, botanico, collezionista e naturalista, autore dell’opera “Il viaggio di Monte Baldo“: la figura di Calzolari è avvolta dal fascino delle leggende per via della sua conoscenza dei misteri naturali del Monte Baldo, la grande montagna che con un’immensa ricchezza e varietà di specie vegetali, grazie agli studi del veronese fu prima indicato come l’Hortus Italiae e poi venne considerato l’Hortus Europae.
Calzolari si inoltrò in quella che chiamava la “Valle d’Artilone”, un nome che i curiosi e appassionati di creature fantastiche possono ritrovare fra le pagine del bestiario del lago di Garda Fantastico Garda, per andare anche alla scoperta della misteriosa Mandragora che proprio lo studioso avvistò ai piedi della montagna, in una delle città gardesane.
Per omaggiare i 500 anni di Francesco Calzolari, qui di seguito è possibile leggere il racconto “Hortus Italiae” di Simona Cremonini basato sulla biografia del farmacista e già apparso nell’antologia “La bottega dell’erborista“.
Negli ultimi anni di vita egli fu afflitto da cataratta che gli provocò cecità, ma prima che ciò succedesse… C’era una cosa che Francesco doveva assolutamente fare.
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Hortus Italiae
Simona Cremonini
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Il profumo dei suoi fiori, i suoi amati fiori… Qualunque cosa, ancora, potesse succedergli, nessuno lo avrebbe privato di quello.
Francesco Calzolari sospirò. Poi inspirò a fondo per lasciare entrare, ancora una volta, quell’aroma nelle proprie narici. A pensarci bene, era l’unica consolazione che aveva: con gli occhi ormai spenti da quella terribile cataratta, la farmacia svenduta al vicino di bottega, i due figli morti prematuramente, le figlie che avevano generato solo nipoti femmine, e nessuno che proseguisse l’attività della famiglia… Sì, non gli restava che godersi gli odori che potevano donargli le colline di Rivoli Veronese, finché non fosse giunta la sua ora. Con forza strinse tra le dita il sacchettino di stoffa che ormai da anni portava con sé, come un talismano.
Eppure l’inedia, la totale impossibilità di montare a cavallo e andare in cerca di piante, come anni prima aveva fatto con messer Alvise e con Ulisse, non gli impedivano di tornare con il ricordo a quegli anni floridi: in quel periodo, quando il padre non aveva bisogno di lui in bottega, Francesco era libero di andarsene sul Montebaldo, scritto tutto d’un fiato, proprio come piaceva a lui, e un giorno lassù aveva guidato i due illustri forestieri lungo la sua riserva di erbe.
Era una luminosa giornata di giugno: il maestro Luigi “Alvise” Anguillara e il giovane bolognese Ulisse Aldrovandi, che Francesco ben presto aveva scoperto essere suo coetaneo, si erano lasciati condurre lungo i sentieri che lui esplorava di stagione in stagione e sui quali piante ed erbe medicinali crescevano rigogliose.
Guidando i due studiosi nel suo paradiso vegetale personale, da speziale di provincia Calzolari era riuscito a divenire, agli occhi del mondo, uno dei dotti delle scienze naturali, da cui nessun ricercatore avrebbe mancato di fermarsi andando a visitare la montagna. La “Campana d’oro”, la sua officina di erborista e farmacista, era divenuta tappa obbligata a Verona per acquistare piante e cose meravigliose che spesso il Baldo regalava solo a lui, che lo conosceva bene e sapeva ricercarvi nuove scoperte.
Anche per questo, anni dopo la prima spedizione con l’amico e il maestro, il giorno che l’uomo con la bocca larga entrò nella sua farmacia Francesco non se ne stupì affatto. Non era il primo né l’ultimo a interessarsi alla sua “camera delle meraviglie”, o a voler visitare la bottega, né mancavano i clienti che neppure facevano caso al farmacista e alle sue piante, più che altro ingolositi da spezie e frutta secca o attirati dalla grande scelta di candele esposte in ogni momento dell’anno.
Piuttosto, a meravigliare Francesco fu il modo in cui lo sconosciuto mostrò di conoscere non solo le erbe ma tutto ciò che vi stava intorno.
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«Calzolari, la vostra fama vi precede. Massimiliano II d’Asburgo sa il fatto suo: se l’imperatore vi chiese di preparare personalmente un rimedio per lui confido che sia perché conosce le vostre capacità o qualcuno a lui vicino vi ha ben presentato».
Una voce pacata, eppure irritante: con quella l’uomo tarchiato, anonimo se non per quelle labbra deformate in larghezza, cercò di vincere la sua resistenza. Ma Francesco replicò risoluto: «Vi ingannate se date retta a tutte le leggende e le dicerie che circolano sul mio conto. Non dovete ascoltare quello che i miei concittadini raccontano».
Così dicendo, per far intendere all’uomo che non dava peso alla sua presenza, il farmacista si rimise a dosare. Proprio in quel momento però gli venne l’istinto di sollevare lo sguardo verso la finestra e sull’altro lato della strada, oltre i banchi di frutta e ortaggi, notò una figura alta, forse un po’ ricurva per quello che riusciva a vedere, con un lungo mantello e un cappello che gli impediva di metterne a fuoco la precisa fisionomia. Eppure sapeva che lo sconosciuto lo stava osservando, e Francesco non riuscì a trattenere un brivido. Buttò una rapida occhiata al suo interlocutore dentro la bottega e si chiese se i due fossero in combutta. Ma l’altro stava sfogliando i libri in cui l’erborista seccava fiori e foglie di cui voleva conservare l’immagine, il suo “hortus siccus” personale, e non dava segno di cercare appoggio dall’esterno.
«Aconitum napellus» disse l’uomo, a un certo punto, come se avesse trovato quello che cercava.
Francesco finse di non aver sentito. L’altro continuava a reggere il libro in mano.
«Aconito napello» ripeté lo strano visitatore un minuto dopo, stavolta non più in latino, guardando lo speziale. «Due parti di aconito napello saturate in sette parti di acqua distillata. Non è forse questa la dose corretta che di solito preparate per la vostra teriaca?»
«Che cosa volete?» chiese Francesco. Certo non era allarmato, aveva sempre difeso la propria attività anche grazie all’aura di mistero che si era creato attorno, ma l’altro mostrava di sapere di più del suo lavoro di quanto accadesse in genere.
Abbandonata la dosatura dell’antidolorifico, ormai terminata, attese una risposta da quelle labbra sproporzionate, il cui proprietario aveva gli occhi ancora chini sul volume. Lo speziale rivolse allora, di nuovo, i suoi alla finestra. La figura là fuori era sparita, o forse si era spostata. Non era più in grado di vederla.
«È solo uno dei tanti ingredienti» aggiunse. «Che cosa desiderate da me?»
«Calzolari, non temete. Conoscete le proprietà dell’aconito: ci sono serve che, per conto delle loro padrone, sono solite venire proprio qui a rifornirsi di quella pianta. E forse anche voi direttamente avete avuto modo di sperimentare qualcuna delle sue proprietà, magari anche alcune che potremmo definire… profane». Posò il libro sullo scaffale da cui l’aveva sfilato. Quella frase lasciava intendere una non troppo velata minaccia. Nell’ultimo secolo l’aconito era divenuto noto, tra il popolo ma anche e soprattutto negli ambienti ecclesiastici, come l’erba che donava l’invisibilità, usata nell’unguento che permetteva a chi praticava l’arte diabolica di giungere al sabba. Forse era per questo che c’era sempre un certo imbarazzo in quelle persone che venivano a farne richiesta per placare dolori alla mascella e ai denti, per i quali quella soluzione risultava particolarmente efficace.
«Non siete l’unico che ha a cuore la scienza delle erbe». L’uomo fece una breve pausa, come a voler sottolineare l’ultima frase. «Tuttavia, siete il più grande esperto nella loro raccolta, e sapete perfettamente che non esiste luogo più adatto del Baldo per reperirne in quantità considerevole».
Francesco iniziava a capire dove volesse arrivare.
«Il vescovo Valier mi manda da voi perché necessita di cinque once di Aconitum napellus».
Prima che Francesco potesse parlare e iniziare a fare domande, la bocca larga si contrasse e un cofanetto scivolò tra le mani dello speziale. «Questa è la metà del vostro compenso; con il resto sarete risarcito alla consegna. Tornerò tra sette giorni».
Non prima di avergli regalato un ghigno che allungava in modo ancora più sproporzionato le sue labbra, l’uomo tarchiato sparì dalla “Campana d’oro”. Francesco attese alcuni istanti, come se si aspettasse che l’altro tornasse, poi aprì la scatola.
Se la Chiesa si stava interessando a lui e alle sue piante, qualunque fosse il motivo reale, dimostrava certamente anche una certa generosità nel compensarlo.
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“Hortus italiae”: così, in seguito, il medico cremonese Giovanni Battista Olivi avrebbe definito Il Montebaldo con la sua vegetazione. Fiutando le colline che lo circondavano, cercando di ripescarne dalla memoria le forme e i colori, Francesco ripensò a quella particolare spedizione alla ricerca dell’aconito nel suo immenso “hortus” personale: tutto sommato era stata solo una delle tante che aveva fatto negli anni. Ma, tornato nella sua bottega, carico delle cinque once di fiori richieste dal vescovo e di altre erbe di suo personale interesse, del cui utilizzo non avrebbe certo informato sua signoria, notò dall’altra parte della strada un profilo già visto.
Si chiese se fosse il caso di preoccuparsene. L’uomo dalla bocca larga mandato dal Vescovo si sarebbe presentato quel giorno, come aveva annunciato. E quindi Francesco cosa doveva pensare? Che quella sagoma indistinta, le cui fattezze erano celate dal cappuccio, fosse già nei pressi della bottega per controllare le sue mosse? Oppure era rimasto là fuori tutto il tempo, ad aspettare il suo ritorno? L’erborista si sentì a disagio.
Poi c’era il discorso che aveva fatto l’uomo dalla bocca larga, che pareva essere ben edotto sulle richieste che Calzolari riceveva nei suoi commerci. Era Francesco in persona a preparare certi impacchi che a venire a ritirare in bottega, più di una volta al mese, era la serva di una certa nobildonna accusata da più di una veronese di averle sedotto il marito: i fedifraghi narravano di unguenti, di viaggi effettuati nella notte, volando, per raggiungere le colline attorno alla città e oltre… Anche la curia, a quanto pareva, aveva appreso di quei racconti.
Il rumore della porta che si apriva fece sussultare l’erborista. Non era facile stupirlo, ma ritrovarsi lì proprio una certa donna, sapendo che esattamente quel giorno anche l’uomo con la bocca larga si sarebbe presentato alla “Campana d’oro”, era una sfortunata coincidenza.
«Dovete perdonarmi, oggi sono molto impegnato. Sono appena tornato dal Montebaldo e solo domani, quando avrò sistemato le erbe raccolte, riuscirò a preparare quanto serve alla vostra padrona…» Cercò di liberarsi subito della ragazza, ma costei pareva invece dell’idea di rimanere in bottega finché non avesse avuto quello che la sua signora desiderava.
Infine, spazientito e intimorito all’idea che l’emissario del vescovo potesse sorprenderla lì, le disse chiaramente: «Dovete andarvene… aspetto un individuo che potrebbe mettere in pericolo voi e la vostra padrona».
Aveva appena pronunciato quella frase che dalla porta aperta sulla strada vide avvicinarsi l’emissario del vescovo. «Sparite!» le impose. Pochi metri, la giovane sarebbe stata vista, non era possibile che sfuggisse all’incontro. Francesco avrebbe dovuto intimarle subito di andare via, ma non l’aveva fatto.
Fu questione di un attimo. La ragazza sfilò qualcosa di stoffa da una tasca e disse: «È un dono per voi dalla mia padrona». Poi sussurrò alcune parole incomprensibili e mosse le braccia tra loro, in una sequenza che Calzolari avrebbe ricordato nei mesi e anni a venire pur senza mai ripeterla. Il piccolo sacchetto che la serva stringeva tra le mani piombò a terra, mentre la giovane scomparve nel nulla.
In quel preciso istante l’uomo con la bocca larga varcò la soglia con il suo ghigno. Nonostante lo stupore che lo pervadeva, Francesco ebbe l’accortezza di coprire con il proprio piede, celandolo alla vista dell’altro, l’involucro che era precipitato sul pavimento.
«Calzolari, a quanto pare siete tornato puntualmente… avete procurato l’Aconitum napellus per il vescovo Valier?». La sua voce altezzosa suonava spiacevole e stridente.
«Cinque once. Le trovate laggiù, a fianco della mia libreria che già conoscete. Temo che dovrete far venire un vostro servitore per farvi aiutare a trasportarlo». Francesco sperava che l’altro sarebbe uscito, almeno per qualche istante, per capire cosa fare con quell’oggetto per terra, o perlomeno nasconderlo, prima ancora che cercare di comprendere cosa fosse successo alla donna.
«Molto bene, dirò a Pietro di venire a caricarlo. Questo è vostro, è quanto vi è stato promesso».Uno scrigno di legno, simile a quello che gli era stato già consegnato, passò dalle mani dell’emissario del vescovo a quelle di Francesco che ne verificò il contenuto. Il suo interlocutore stava esattamente dove fino a pochi istanti prima si trovava l’altra visitatrice.
Mentre l’uomo con la bocca larga dirigeva le operazioni di carico, Francesco raccolse al volo lo strano sacchettino, stringendolo nel palmo. Lo sguardo gli cadde oltre la bottega, in strada. La figura che aveva visto pochi giorni e anche pochi minuti prima era ancora là, ma Calzolari si convinse che la misteriosa sparizione della donna sarebbe rimasta un segreto tra loro.
«Il vescovo sarà lieto di sapere che avete collaborato e siete stato così efficiente». Le labbra deformate si congedarono senza troppi complimenti. Forse il loro proprietario era ansioso di tornare da dove era venuto.
Francesco alzò lo sguardo, per capire se avrebbe dovuto cercare di parlare con lo sconosciuto, se avrebbe dovuto dargli qualche spiegazione o magari ottenerne. La strada era deserta.
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Il sole stava preparandosi a tramontare dietro le colline. In quei giorni, in cui il buio aveva ormai avvolto i suoi occhi, a Francesco piaceva annusare come l’aria cambiasse non appena la luce diurna volgeva al termine.
«Aconitum napellus», sussurrò stringendo il contenitore di stoffa. Aveva sempre saputo che il sacchetto delle erbe della strega conteneva l’aconito. Ma si era ben guardato dal farlo sapere ad alcuno, perché comunque il vero incantesimo non risiedeva nella pianta ma nella magia di chi il sacchetto lo componeva. Gliel’aveva confermato la serva, in seguito, quando era tornata a trovarlo portandogli come sempre i sacchetti che poi venivano consegnati a un’altra domestica che lavorava per la nobildonna che tutte le mogli di Verona temevano.
Calzolari si alzò, guadagnò l’equilibrio e iniziò a camminare. Non era certo che il suo olfatto gli potesse fare da guida per un lungo tratto, ma nei giorni precedenti a più riprese aveva percorso il parco con la figlia ad accompagnarlo. Ricordava quindi perfettamente che, dove terminavano i cespugli di gelsomino, il terreno si tuffava in una scarpata di una decina di metri di profondità.
Francesco marciò a brevi passi fino al limite, poi con uno scatto del braccio abbandonò nell’aria il contenitore di stoffa, che toccò impercettibilmente terra. L’aconito magico era di nuovo nel luogo da cui era venuto, assieme agli altri misteriosi ingredienti avvolti dall’involucro di protezione, e nessuno avrebbe mai conosciuto molte delle magie di cui la Campana d’oro era stata testimone negli anni.
Chissà se lo sconosciuto incappucciato visto sulla strada aveva mai parlato ad altri della donna scomparsa sotto i suoi occhi. L’erborista ne dubitava e ora poco importava.
Ora Calzolari poteva tornare, in pace, al profumo dei suoi fiori.
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L’opera Il viaggio di Monte Baldo di Francesco Calzolari può essere scaricata qui.